Défense (un conte interrompu)

Ho scritto questo testo nel 1995, a Parigi, mentre lavoravo in un cantiere della Défense come préposé à la barrière levante, perché la borsa di studio dell’università non era sufficiente. Era un capitolo di una strana storia che non ho mai finito di scrivere. Potrei finirla ora, saprei anche come farla finire… L’idea era quella di far capitare qualcosa di oscuro a qualcuno che passava parte del suo tempo, la sera tardi, ad ascoltare le interferenze di una ricetrasmittente che, precariamente, era in grado di captare brandelli di trasmissioni, sia pubbliche che private. Non c’era in realtà niente altro da aggiungere, nessuna storia da raccontare, solo descrivere gli oggetti, l’oggettività, ciò che è insieme, tuttavia, al sospetto di ciò che poteva essere. Redigere una cronaca isomorfa alla realtà, rimanendo per sempre tra la folla dei dubbi dei sentieri interrotti, ma appeso ad un’immagine cara, passata, forse perduta, ad esempio di sassi levigati e celesti sulla riva.


L’unica cosa che occorre sapere consiste nel fatto che, per svolgere le mie mansioni, ero costretto a rimanere per circa otto ore al giorno, dal pomeriggio fino a tarda sera, in un gabbiotto prefabbricato che, in breve tempo, come accade in casi simili, divenne una sorta di estensione puramente fisica della mia scatola cranica. In realtà non avevo molte cose da fare e, soprattutto dopo le cinque, mi ritrovavo a passare il tempo leggendo, scrivendo e mangiando.

A sera, rimanevo completamente solo poiché le altre persone che lavoravano nei paraggi, o che si trovavano a passare di lì, raramente a piedi, improvvisamente scomparivano, come se qualcuno avesse dato un segnale valido per tutti. In tacito accordo, tutti tornavano da dove erano venuti. Che ogni volta fosse lo stesso luogo o uno diverso, io non lo avrei mai saputo. Ma non ci pensavo più di tanto.

L’unico contatto col mondo esterno era per me, in quelle ore, a parte le luci lontane, una piccola e poco efficace ricetrasmittente che, nei momenti più lunghi, quelli che arrivano circa due o tre ore prima della fine della giornata lavorativa, tenevo spesso accesa cercando, con la manopola adibita, le stazioni lontane più disparate.

Trovandomi a Parigi, chiaramente, riuscivo ad ascoltare con una certa chiarezza, le stazioni locali, soprattutto nella banda denominata modulazione di frequenza e, pur sempre, tra mille interferenze e rumori di ogni tipo. Come ho già detto, non si trattava di una vera e propria radio.

Oltre a quella, era possibile sintonizzarsi su altre tre bande. Una era quella delle onde lunghe. In essa erano percepibili non più di tre stazioni, tutte francesi, ognuna delle quali occupava uno spazio relativamente grande della banda. Un’altra era quelle delle onde corte. Contrariamente alla precedente, questa banda ospitava stazioni in spazi ridottissimi che il movimento rotatorio impresso dalla mano alla manopola non riusciva a cogliere. La ricetrasmittente non era dotata di quella seconda manopola, più piccola, che avevo notato in altre radio, evidentemente in grado di eseguire una ricerca più precisa. La banda delle onde corte si distingueva particolarmente per la presenza di sibili simili a fischi, a volte potenti e prolungati.

Infine vi era la banda delle onde medie, la più popolata dopo quella della modulazione di frequenza. Purtroppo questa banda, forse più delle altre, appariva particolarmente soggetta alle interferenze e difficilmente si riusciva a comprendere il significato delle conversazioni o dei monologhi trasmessi. Bisogna anche dire che i vari linguaggi utilizzati erano, almeno per me, assolutamente incomprensibili.

Oltre alle voci francesi, predominavano quelle inglesi e quelle tedesche. Seguivano quelle slave e quelle arabe, non se se provenienti dal Medio Oriente o dall’Africa Settentrionale. Di tanto in tanto avvertivo la cantilena delle lingue scandinave che, in gran parte, erano precedute o seguite da canzoni folcloristiche. Inspiegabilmente, riuscivano a giungere anche trasmissioni dell’estremo oriente. Non ho alcuna cognizione, devo dire, di quelle lingue, ma certo mi sembrava di poter riconoscere il giapponese. L’unica trasmissione in spagnolo era assai disturbata, e le parole erano pronunciate a gran velocità.

Di rado, ed ogni volta accoglievo la scoperta con grande entusiasmo, riuscivo a sintonizzarmi su una radio italiana, poiché io stesso sono italiano. Era estremamente difficile comprendere le parole, comunque. Il segnale andava e veniva e sembrava particolarmente disturbato da una radio inglese, o americana, su banda contigua. Allora tendevo con attenzione l’orecchio al piccolo altoparlante e riuscivo a seguire finche era possibile le conversazioni più banali, le notizie più ripetitive, le musiche meno oneste, soltanto per il calore emanato dalla lingua materna.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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