Col cielo grigio giunse un vento umido e freddo dall’entroterra di Ostia, dalle paludi e dalle pinete, dalle piscine e dalle leccete, passando tra le casupole e le capanne degli abitanti di quei luoghi. Portava l’odore del fumo di poveri fuochi, delle dita che lo avevano attraversato, della resina, delle ciliegie di mare e della sabbia delle dune.
Venne per sentieri incontrando le nostre ombre che ancora li correvano, le ombre di noi ragazzini, armati di lunghi rami trovati a terra, o strappati agli alberi, scelti tra i più dritti, e appuntiti con impensata perizia col ferro e col fuoco. Inseguivamo altre ombre, che sempre si dileguavano, e prendevamo possesso per interi pomeriggi delle terre tra Procoio e il Canale dello Stagno, lanciando oltre l’acqua ferma grida di guerra e anatemi alla terra che iniziava dopo l’acqua ferma, che un giorno l’avremmo attraversata, che un giorno avremmo posseduto anche quella.
Con rami acerbi e rottami di mobilia povera, abbandonata nella macchia, alimentavamo un fuoco da cui sprigionava un gran fumo, e ristavamo in silenzio, ammirando la nostra grande opera al grigio.
L’odore di quel fumo rimaneva sulle nostre dita fino a cena, e nemmeno il sapone lo toglieva perché riconoscendolo si fondeva con esso, dando vita a nuova fragranza di luoghi vicini e antichi che già, sulla carta del nostro ricordo, perdevano i contorni e la nitidezza somigliando sempre più a macchie di fumo bianco, grigio e nero.
Quelle cose grigie e sfocate del passato tornano di tanto in tanto col vento, recando ancora speranze di vittorie e di scoperte, e di molto altro che nessuno saprebbe più dire.
Non sapevamo che solo una notte ci separava dal sole accecante, caldo, che avrebbe illuminato le terre desolate e riarse del futuro