Il caso dello scrittore italiano è dunque disperato

Vitaliano Brancati scrisse Ritorno alla censura nel 1952. Al centro del discorso era l’attività censoria del Minculpop (il Ministero della Cultura Popolare del periodo fascista), il quale, scrive,  “aveva come suo scopo principale l’ignoranza. Conferendo alla parola ignorare un valore musicale, si può comporre, con alcune ‘ disposizioni’ ministeriali del ’40-’43, una rapsodia del tutto travolgente:

26 dicembre 1936: Non interessarsi mai di qualsiasi cosa riguardi Einstein
8 ottobre: Ignorare le voci circa l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
17 ottobre: Ignorare la pellicola propagandista dell’ebreo Chaplin.
12 marzo 1938: Si conferma la disposizione di non occuparsi di Greta Garbo.
15 ottobre: Ignorare i cinque discorsi programmatici di Roosevelt. Ignorare il passaggio di Eden da Malta ed ignorare l’articolo conciliante del Vreme.
1º marzo 1941: E’ fatto divieto di pubbliche fotografie, articoli e notizie riguardanti i seguenti attori stranieri: Charlie Chaplin, Erie von Stroheim, Bette Davis, Douglas Fairbanks junior, Myrna Loy, Fred Astaire e la Casa cinematografica Metro Goldwyn Mayer.”.

Si interroga, Brancati, anche sul concetto di libertà di espressione, e sul ruolo degli “intellettuali” nella società, in particolare gli scrittori, costretti tra due mondi, la ricchezza e la miseria, del tutto indifferenti o ostili alla libertà di espressione, il primo per interesse, il secondo perché vuole solo appartenere al primo. Così, quello dello scrittore italiano, che non vuole appartenere né al primo né al seondo, è un caso disperato.

Le cose non stanno più così. E quello scrittore di cui parla Brancati non esiste più. Si può quindi continuare ad affermare che il caso dello scrittore italiano sia disperato.

Non siamo d’accordo coi ricchi e i possidenti italiani, i quali sono pronti a perdere la libertà di pensiero e d’espressione pur di rimanere ricchi. Siamo del parere contrario: che le terre, le ville e le macchine possono andare al diavolo, purché rimanga la libertà di pensiero e d’espressione. Questo fondamentale disaccordo su una questione di tanta importanza ha scavato un solco fra l’Italia possidente ed i suoi scrittori, che essa chiama con disprezzo “intellettuali”, cioè a dire persone del tutto inesperte di cosa voglia dire l’amore per i beni materiali di uso privato. L’ultimo scrittore, che comprese e condivise quest’amore, fu Gabriele d’Annunzio, e per questo l’Italia lo adorò.
Nei suoi versi, così melodiosi quando esprimono la semplice sensualità, vengono spesso celebrati mobili rari, profumi, mezzi di locomozione, quadri, vestiti, guanti, cravatte. Soprattutto, com’è naturale, viene celebrata la guerra di preda che accresce i possedimenti dei ricchi e dà ai poveri il diritto di esercitare qualche prepotenza su poveri di razza diversa.
L’Italia possidente non ama la cultura perché la cultura, nella sua vera essenza, vuol dire prima di tutto libertà di espressione. I rappresentanti di questa vera cultura sono guardati con sospetto, spesso insultati sui giornali. I loro libri non sono letti. Si sa che questi petulanti personaggi, in un mondo tempestoso come quello d’oggi, ove bisogna spesso rassegnarsi a salvare un solo bene, avranno la sfacciataggine, nel momento della tempesta, di pretendere che il solo bene da non gettare dalla barca sia la libertà e non la ricchezza.­1­
D’altra parte non siamo nemmeno d’accordo con quei poveri che, fra libertà di pensiero e la fine della loro miseria, scelgono la fine della loro miseria.
Il caso dello scrittore italiano è dunque disperato.

[…]

L’indomani all’alba mi svegliai.
Subito corsi allo scrittoio, credendo che la mia mente avesse ricevuto da un sonno così compatto quel ristoro che da tanti anni le mancava. Spiegai un foglio bianco e intinsi la penna. Ma il sonno è padre del sonno. Mi risvegliai a mezzogiorno con la guancia sul tavolo: avevo dormito altre sei ore.

Vitaliano Brancati, Ritorno alla censura, Bari 1952

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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