Tempo perso

Erano passati mesi, ormai, dall’ultima volta che l’aveva vista, che aveva sentito la sua voce, che aveva letto un suo messaggio. Sapeva bene che non avrebbe smesso di pensare a lei, ma aveva creduto che il tempo sarebbe passato così come passano i frammenti di paesaggi che si vedono oltre il finestrino di un treno, troppo numerosi e veloci per concedere spazio al formarsi di nuovo ricordo o al soffermarsi senza distrazioni su un ricordo passato. Inoltre, in ogni caso, il treno si sarebbe infine fermato, ad una qualunque destinazione, e là sarebbe certamente potuto accadere qualcosa di diverso, anche di decidere di tornare indietro.

Invece aveva visto sempre lo stesso paesaggio, come fosse immobile, e solo il rumore dell’acciaio sulle rotaie segnava il trascorrere di un tempo che, col passare dei giorni e delle settimane, si rivelò essere interminabile, un flusso che non aveva alcuna durata, che non aveva avuto inizio né avrebbe avuto fine, ad una qualunque destinazione. I suoi pensieri s’erano fatti opachi, e, in breve, si rese conto che tutto s’era ridotto alla speranza di scorgerla in un punto di quel paesaggio, per caso, camminare lungo una strada, affacciata ad una finestra, seduta a leggere sotto un albero. Come se il caso fosse dettato dalla sua necessità. E guardava, guardava, a volte poggiando il naso sul vetro, sollevandosi dalla poltrona, incurante di ciò che avrebbero potuto pensare gli altri viaggiatori. Le azioni più semplici che avrebbero potuto liberarlo da quello stato gli erano sembrate dapprima inopportune, poi impossibili, per ragioni che ormai non si potevano più comprendere.

Di lei non restava che una vecchia fotografia, che lui prese a tirar fuori dalla tasca e a guardare, sempre più spesso, compulsivamente, ancora senza curarsi di nascondere il gesto a quelli che sedevano accanto a lui. All’inizio quel volto ridente riusciva a calmarlo, come se quel sorriso lo rassicurasse del fatto che comunque lei fosse in vita, da qualche parte, e pensasse a lui. Poi quel sorriso cambiò, e gli parve di riconoscere nello sguardo di lei una nota di fastidio, per alcune increspature della pelle che in un primo momento aveva creduto difetti dell’obiettivo. Infastidita, come chi si accorge di essere osservato per un tempo e con modi che violano le norme dell’educazione. Strappò la foto. E si sarebbe strappato anche gli occhi, se fosse servito a farlo scomparire, quello sguardo.

Quando tornò a volgere gli occhi oltre il finestrino il paesaggio s’era abbuiato, non c’era più nulla da riconoscere, solo, sul vetro, la sua immagine riflessa, il suo viso smagrito, confuso, stanco.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.