Venticinque aprile

Il brano che segue è un estratto di un romanzo giallo che ho finito di scrivere circa un’anno fa (che chissà se verrà mai pubblicato). Ho pensato di pubblicarlo nel blog oggi, 25 aprile, per onorare a mio modo la ricorrenza, e ricordare.

 

Roberto-Rossellini-Roma-città-aperta-1945-

36. Via Tasso

Via Tasso è una strada lunga e stretta del rione Esquilino, tra via Manzoni e via Domenico Fontana. Gli edifici mi parvero tutti precedenti gli anni Quaranta, dunque il suo aspetto doveva essersi conservato identico a quello dei tetri anni di guerra. Sopra il civico 145, ingresso del Museo della Liberazione, la bandiera italiana e quella del Comune di Roma. Su una targa, poco più in alto, si leggeva: Questa lapide consacri nei secoli il luogo dove più infierì la ferocia nazista e più rifulse l’eroismo dei martiri. L’associazione nazionale partigiani d’Italia a nome di tutti i combattenti della libertà pose a perenne memoria il v giugno mcmxlv.

L’edificio, in stile razionalista, non concedeva alcunché alle linee curve e vi si aprivano finestre quadrate, appena incassate in una cornice di travertino. Se ne vedono tanti così, a Roma, ma solo in quello vennero condotti prigionieri uomini, per il più labile sospetto di essere in contatto con la Resistenza. Non per essere multati o per subire un processo, ma per essere torturati, e uccisi, se necessario. In base a una necessità connessa alla patologia nevrotica del carceriere, più che alla politica.
Indugiai col pensiero sul loro stato d’animo, varcando quella porta, mentre la paura del dolore o della morte si trasformava in certezza.
Una mattina torni a casa, entri in cucina, trovi tuo figlio appena tornato da scuola, tua moglie che prepara il pranzo, l’odore e il dolce calore dei tuoi cari riuniti, improvvisamente qualcuno sfonda la tua porta, una mano di ferro gelido ti afferra, ti trascina in strada, ti chiude in una stanza. Ti capitano cose che non credevi possibili, e raggeli scoprendo che tali cose erano già dentro di te, annidate in qualche oscuro meandro della tua paura, fugacemente apparse in un incubo, nel corso di una malattia, alla morte di una persona cara, al grido di uno sconosciuto di notte.

Varcato l’ingresso, mi ritrovai nel mezzo di un gruppo di ragazzini che odoravano di matita. Ascoltavano attenti le parole di una loro insegnante: “L’edificio in cui ci troviamo venne costruito alla fine degli anni Trenta, ed era di proprietà della famiglia Ruspoli, che affittò l’intero edificio all’ambasciata tedesca, che qui aveva i suoi uffici culturali della rappresentanza diplomatica. Qui in via Tasso era anche la sede dell’ufficio di collegamento tra la polizia tedesca e quella italiana, del quale era responsabile il maggiore delle SS Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Durante i mesi dell’occupazione nazista di Roma dall’11 settembre del 1943 al 4 giugno del 1944, questo edificio venne utilizzato anche come carcere. Le celle di detenzione, che allora occupavano l’intero stabile, sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga. Queste stanze sono oggi dedicate alla memoria di coloro che vi furono detenuti, e ricordano le più drammatiche e significative vicende dell’occupazione.”

Entrai in una stanza dove, in numerose teche di legno e vetro, erano esposti documenti, fotografie, e lettere scritte dagli sventurati che vennero rinchiusi in quel luogo infelice. Quasi tutti condannati a morte, avevano scritto le loro ultime lettere sui più disparati supporti: brandelli di fogli di quaderno, di giornale, biglietti, ricevute.
Dietro una fotografia, lessi una lettera scritta a penna da Mario De Martis, 23 anni, studente di lettere, tenente pilota:

10 aprile 1944. Dopo 14 giorni inizio questo mio diario sperando in cuor mio di terminarlo presto per la riconquistata libertà. Di questi 14 giorni vissuti nel carcere delle SS di via Tasso, molte e molte cose potrei dire, ma preferisco tralasciare e prendere in considerazione solamente quanto succederà d’ora in avanti. Inizierò col parlare della mia cella. Essa è situata al 2° piano ed è contraddistinta col n. 5: un termosifone eternamente spento, una lampadina eternamente accesa, una porta ed una finestra insistentemente chiuse, quest’ultima naturalmente murata. Vi sono inoltre due panche di legno che servono da duro letto per 2 degli inquilini che sono designati dalla maggiore permanenza in questo inaccessibile luogo in cui è tanto facile entrare quanto difficile uscire. Qui è giocoforza trascorrere tutte le interminabili ore del giorno e della notte e di queste ore contare i minuti primi ed i minuti secondi, uno ad uno. La vita trascorre così monotona ed uniforme: al giorno succede la notte ed a questa un nuovo giorno. Colle prime luci dell’alba e col primo sole apriamo gli occhi e con gli occhi il cuore alle speranze.

Mentre leggevo, s’era avvicinato a me un uomo di una certa età. Ci guardammo per un poco in silenzio. Il suo sguardo era serio, ma sereno.
“Lo fucilarono due mesi dopo, il 3 giugno,” mi disse.
“Maledetti…” risposi a denti stretti, e mi venne in mente la scena di Roma città aperta in cui il sacerdote, interpretato da Aldo Fabrizi, rivolge la stessa imprecazione all’indirizzo dell’ufficiale nazista, la cui figura credo fosse ispirata a quella di Kappler.

[…]

L’immagine è tratta da Roma Città aperta (1945) di Roberto Rossellini

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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