L’ “eterno ritorno” dello Stagno di Ostia (Ostiae Lacus)

Breve nota storico-ambientale sullo Stagno di Ostia.

Cingolani
G. B. Cingolani, Topografia geometrica dell’Agro romano (…), 1692 (part.)

La forma e l’aspetto del territorio ostiense, nel retroterra immediato la città antica, hanno subito sostanziali trasformazioni ad opera dell’uomo, soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento. Il principale elemento naturale che oggi tendiamo a credere scomparso è senza dubbio il grande Stagno di Ostia, che si estendeva alle spalle della città, tra il Tevere e Castel Fusano, e che Livio in un passaggio definiva Ostiae Lacus (XXVII, 11, 2). Di questo grande bacino paludoso troviamo menzione anche in Tacito (Annales, XV, 43, 4), il quale annota che nelle paludes ostienses furono gettate, per ordine di Nerone, le macerie provenienti dall’incendio di Roma, fornendo così peraltro testimonianza di uno dei primi tentativi di bonifica dell’area.

In età romana, grazie anche a numerose opere di drenaggio, delle quali restano cospicue tracce archeologiche, la pianura alluvionale che circondava Ostia poté essere abitata, coltivata, e attraversata da una rete di diverticoli che collegavano tra loro la città e le villae suburbane (alcune residenziali, altre anche produttive, ovvero rusticae), alla viabilità consolare (Ostiense e Portuense) e litoranea (Severiana).
Lo stesso Stagno veniva sfruttato principalmente per la pesca e per la raccolta del sale, due elementi che peraltro furono alla base della frequentazione protostorica dell’area della foce tiberina.

In età tardo antica, il venir meno delle attività di manutenzione del territorio dovette determinare un generale ritorno della palude, e il conseguente degrado della viabilità fluviale e terrestre.
Da un passaggio di Procopio (Guerra Gotica, I, 26) [1], relativo l’anno 537, desumiamo ad esempio che Ostia “già un tempo città ragguardevole” era in quel tempo “ormai sprovvista di mura”, che le “navi dei Romani non potean più approdarvi”, benché il Tevere rimanesse comunque “navigabile da entrambe le parti” – ma non a vela (per la scarsa profondità, per il poco vento e per la sinuosità del fiume) bensì facendo trascinare le imbarcazioni fino a Roma per mezzo di buoi che le tiravano dagli argini –, e infine che la stessa via Ostiense era pressoché impraticabile, “selvosa, molto trasandata e neppur prossima alla sponda del Tevere”, circostanza che probabilmente rendeva preferibile recarsi a Roma usando la vicina via Portuense.

Per tutto il Medioevo, il Rinascimento – quando lo Stagno e le Saline vennero date in gestione alla Reverenda Camera Apostolica –, e l’età moderna, si hanno notizie di continue opere finalizzate alla manutenzione dello Stagno e al dragaggio del suo sbocco a mare, per consentire l’ingresso di acqua salata, e dunque il funzionamento delle Saline, evitando peraltro il ristagno eccessivo delle acque. Lo stagno viene in questo periodo spesso definito Stagno di Levante, anche per differenziarlo da quello “gemello” di Ponente, ovvero lo Stagno di Maccarese, che si estendeva sulla riva opposta del fiume.

Carlo Fea, nella sua fondamentale dissertazione pubblicata nel 1831 col titolo Storia delle saline di Ostia [2], ci consente di ricostruire questa storia, ricordando ad esempio opere per lo spurgo del canale grande di Ostia (1758), o per introdurre l’acqua del mare in quelle saline (1774). Scopo originario della dissertazione di Fea, che era avvocato e Commissario alle Antichità, era quello di difendere gli interessi della Reverenda Camera nei confronti di piccoli imprenditori locali, rei di non eseguire tali opere in cambio della ottenuta concessione d’uso dello Stagno, e di effettuare chiusure o riaperture della foce senza disegno e solo per il loro interesse.

Interesse che era di frequente legato alla pesca, e sotto certi aspetti comprensibile, sennonché perseguito in modo disorganico, e senza porre cura allo stato di salute dello Stagno stesso, come parrebbe di evincere da alcuni provvedimenti che potremmo definire “di tutela ambientale” che il Vaticano dovette emanare, ad esempio il bando del 15 dicembre del 1644, che, a tutela della fauna ittica, vietava da marzo a giugno ai pescatori di avvicinarsi alla fiumara di Ostia e Fiumicino per gettare in acqua rifiuti nocivi quali “erba mora, tutumaglio e calce”, e un atto del 7 febbraio 1699, in cui si prescriveva: “volendo noi provvedere al mantenimento e alla difesa della foce, che chiude l’acqua dello stagno di Ostia, tanto necessaria alla fabbrica dei sali, e raffrenare l’audacia di alcuni, che per privati loro interessi non si astengono di far atti molto pregiudiciali ad essa, però d’ordine di N.S. comandiamo e proibiamo che qualsivoglia persona di qualunque stato non ardisca […] levare in tutto o in parte sabbia, passoni, travi ed altri legnami, i quali chiudono la detta foce dello stagno, sotto pena di scudi 200 per ciascuna volta ed altre corporali ad arbitrio. Et […] prohibiamo che […] non ardischano andare, stare, passare, movere o in qualunque modo accostarsi per lo spazio di canne cinquanta alla detta foce e nemmeno pescare nel fosso dentro lo stagno o nel mare appresso l’imboccatura della detta foce […] sotto pena di scudi 500 […] E vogliamo che questo editto, doppo che sarà stato pubblicato alla porta della chiesa maggiore di Ostia, astringa ogn’uno come se gli fosse stato personalmente intimato”. [3]

Di questo lago, prosciugato grazie alle opere di bonifica alla fine dell’Ottocento, restano alcune parziali e sbiadite immagini d’epoca, e per farsi un’idea del suo aspetto generale si potrebbe visitare ad esempio al Lago di Paola, o Sabaudia, anch’esso ridotta testimonianza delle estese paludi che un tempo caratterizzavano l’intero litorale laziale, e che hanno profondamente ispirato opere pittoriche di vari artisti tra XVIII e inizi XX.
Ma come si sarà ben compreso, quello di Ostia più che un lago era davvero e solo un grande stagno, la cui profondità superava difficilmente quella di una persona, come già 1469 rammentava Pio II (Enea Silvio Piccolomini, 1405-64) nei suoi Commentarii: “nec altitudine hominis profundius est” [4]. Ancora intorno alla metà dell’Ottocento le misurazioni effettuate riportavano una profondità media che difficilmente superava il metro  [5].
Lo Stagno era collegato al mare attraverso un braccio naturale (che oggi conosciamo col nome di Canale dello Stagno, ridotto negli argini di cemento realizzati tra 1933 e 1939 ), e proprio grazie all’acqua di mare potevano alimentarsi le Saline, un tempo site nell’area che ancora oggi reca il medesimo nome. Ciò era possibile però soltanto attraverso continue opere di manutenzione del collegamento con il mare – che di frequente si insabbiava (problema ancora oggi esistente), innescando processi di impaludamento e di desalinizzazione delle acque –, e con le stesse Saline, per raggiungere le quali si doveva oltrepassare la via Ostiense.

Si tratta dunque di una scomparsa temporanea, ovvero che perdurerà finché le modificazioni antropiche saranno attive ed efficaci. Modificazioni che possiamo distinguere in positive  e negative: le prime finalizzate all’adattamento sostenibile dei luoghi alla vita e alle attività umane; le seconde puramente speculative, estemporanee e disorganiche, le quali, al di là degli obiettivi preposti, determinano una trasformazione non sostenibile del territorio, ad esempio impermeabilizzando il terreno con il cemento, distruggendo opere di canalizzazione delle acque, riducendo o azzerando gli habitat naturali. E mentre le prime avviano, per così dire, un dialogo reciprocamente proficuo con la natura, le seconde determinano un conflitto permanente, tra l’ottusità dell’uomo e una natura che da madre diviene matrigna. I risultati più evidenti di tale conflitto sono ad esempio le alluvioni causate dalle esondazioni di fiumi e canali e dalla ridotta capacità del terreno, in gran parte cementificato, di assorbire le acque. E se un tempo tali alluvioni riguardavano essenzialmente aree agricole, oggi interessano soprattutto aree abitate, con le disastrose conseguenze che si possono ben immaginare.

Giova ricordare una delle fotografie aeree scattate dalle forze alleate durante la seconda guerra mondiale nella quale, avendo i tedeschi disattivato le idrovore, si nota con chiarezza la ricomparsa dello Stagno. Una natura dunque sempre pronta a ricomparire, specie nelle aree che si trovano sotto il livello del mare, a seconda delle stagioni, degli eventi climatici e dell’ottusità degli uomini, e a rivelare la sua primordiale e ineffabile origine palustre.

NOTE

Articolo tratto, in parte, da S. Lorenzatti (a cura di), Ostia. Storia, ambiente, itinerari, Roma 2007.

[1] Per la citazione di Procopio I, 26 utilizzo la traduzione dal greco di D. Comparetti, Roma 1895.
[2] Carlo Fea, Storia delle Saline d’Ostia introdotte da Anco Marcio quarto re di Roma dopo la fondazione di quella città, Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, Roma 1831.
[3] Il bando in Regesti  di  bandi,  editti,  notificazioni  e  provvedimenti  diversi  relativi alla  città  di  Roma  ed  allo  Stato  pontificio, Roma  1920-1958, cfr. V, 1934, p. 38, n. 210; l’atto è citato da Giuseppe Tomassetti, La Campagna Romana, in “Archivio della società Romana di Storia Patria, XX, 1, 1897, pp. 79-80
[4] Commentarii rerum memorabilium…, Romae 1584, XI [555C-D] (pubblicati per la prima volta nel 1584, i Commentarii si riferiscono al periodo 1458-63)
[5] Si veda ad es. la Relazione Canevari, in “Annali dei Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio”, 71, Roma 1874.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

2 Risposte a “L’ “eterno ritorno” dello Stagno di Ostia (Ostiae Lacus)”

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