Le pietre nei muri (in Ascoli)

Note

Qualunque viaggiatore capitasse in Ascoli e non sapesse che è stata un’antica città, e città presso gli stessi antichi assai rispettata, con picciole osservazioni, che egli facesse, il conoscerebbe da se medesimo. In fatti vedrebbe egli colonne di vario diametro, nella maggior parte di travertino poste in opera in varie fabbriche, non come per ornamento ma come per materiale comune. Altri pezzi ne vedrebbe lungo le strade, e le piazze, lasciatevi in abbandono forse fin da quando saranno scoperte in quella vicinanza col mezzo di qualche scavo […]. In somma, dovunque si osserva, s’incontrano marmi, e sassi, i quali ci avvisano della passata grandezza di questa città”.

Così l’abate Giuseppe Colucci nelle sue Antichità ascolane (Fermo 1792, p. 177)

Riuso di frammento di epigrafe antica in via Giudea, Ascoli Piceno.

Camminando per Ascoli Piceno, redigo liste di frammenti di marmi e travertini in forme corinzie ioniche lisci o decorati o iscritti, risparmiati dal tempo nelle murature grigie di alcune abitazioni o chiese per raccontarne la storia, storia delle cose, dell’assenza (i termini, scrive Barthes, sono uniti in absentia: l’attività analitica corrispondente è la classificazione) [1] e della presenza, il modo in cui esse rappresentano un possibile punto di intersezione di tempi e spazi diversi, come strappi (illusori) del continuum spazio temporale (illusorio perche il valore della storia è quello pieno dell’attualità: “Jetztzeit”, avrebbe detto Benjamin, e lo disse) [2]: le spire di un mostro marino rilevate su un blocco di travertino alla base del torrione sud di porta Gemina, (prima nascosta nel corpo di S. Leonardo, demolita nel 1824); l’elmo con paragnatidi e la corazza di un perduto frammento di fregio dorico (62 x 38) nelle fondazioni romaniche di S. Gregorio, che oscure mani rimisero in posa; l’iscrizione “DE ET” nel muro di via Giudea, priva di contesto, che l’ignoto passante avrà notata, almeno una volta nella sua vita…

“Riuso è una brutta parola”, mi scrisse Emilio Garroni, “solo in parte dal significato nuovo: per un verso non esprime altro che il già normale trasformarsi degli oggetti nel tempo, per le cause più diverse, umane e no”. [3]

Sì, ma, dico io, anche una una Dialektik des Fragments dove i frammenti sono scelti e formati in base alla loro capacità significativa (synthetischen Fragmenten) [4]

Sì, ma, dico io, la stessa letteratura antica, secondo Curtius, altro non era che un immenso magazzino di topoi da riutilizzare [5], così come le rovine altro non sono che immensi magazzini di topoi, di spolia (Settis) [6], e la mutilazione, scrive Pareyson (che di Garroni era il maestro), non distrugge l’intero, l’opera d’arte non cessa di vivere anche se ridotta a frammento e non perde valore artistico e riconoscibilità, persino nel rudere. il tutto che ha disposto le parti fa sì che ogni parte “reclami e invochi le altre parti si che non c’è mutilazione che possa sciogliere l’intero e sopprimere il reciproco appello delle parti” [7].

Sì, ma, dico io, anche una ulteriore possibilità di indagine e definizione del rapporto che si instaura tra oggetti e persone, che non è possibile esaminare gli uni indipendentemente dalle altre, perché se le persone conferiscono funzione e significato agli oggetti servendosene, gli oggetti, scrive Pomian “codéterminent leur place dans la hiérachie sociale, leurs rôle et leurs identités” [8].

I materiali che ora giacciono nella polvere possono essere utilizzati per costruire un magnifico edificio”, scrive Kant [9], allude alla ricostruzione della conoscenza utilizzando la metafora delle rovine.

E se lo dice lui…


NOTE

[1] R. Barthes, Eléments de sémiologie, dans “Communications”, 4, 1964, p. 115 et passim
[2] W. Benjamin W. Angelus Novus, Torino 1955 (ed. 1962), Tesi di filosofia della Storia, xiv, p. 83
[3] In una lettera del 1995
[4] J. Kalb, The Theater of Heiner Müller, Cambridge 1998, p. 10
[5] E. R. Curtius, Letteratura Europea e Medioevo Latino, Firenze 1997, pp. 81-2 et passim
[6] Citando Curtius: S. Settis, Tribuit sua marmora Roma. Sul reimpiego di sculture antiche, in AA.VV., Lanfranco, Wiligelmo. Il Duomo di Modena, Modena 1984, p. 385
[7] L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Milano 1988, pp. 112-113
[8] Pomian K., Sur l’Histoire, Paris 1999, p. 229
[9] Kant, Lettera a Christian Garve (7 agosto 1783) in Epistolario filosofico 1761-1800, Genova 1990; Critica della Ragion Pura, Torino 2004, cap. III, p. 1173



Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.