Proiettile e busta

Immagine: dal film “Milano nera“, 1961 di Gian Rocco e Pino Serpi, autori anche della sceneggiatura assieme a Pier Paolo Pasolini.

Il fido esecutore degli ordini del Capo, appena buio, corse a rimediare proiettile e busta, dirigendosi verso l’unico luogo dove immaginava potesse rimediarli: i giardini della Stazione, dove c’erano i negher e gli arabi. La trattativa non fu semplice, rimediò diverse spinte, due sputi e spese 500 euro, cioè tutti quelli che poté prelevare al bancomat, obbligato da un un tipo al quale i cento euro che aveva in tasca non bastavano per il proiettile, figuriamoci per la busta, aveva detto. Così questo tipo, dalla pelle scura ma non troppo, quasi prendendolo per il bavero lo aveva condotto fino allo sportello, mentre il fido esecutore degli ordini del Capo non riusciva a capire se fosse un negher o un arabo, avendo qualcosa sia dell’uno che dell’altro; forse poteva essere, aveva sospettato, un meridionale, ma poi pensò che no, non poteva essere, perché il tipo aveva un accento diverso da quello di suo nonno Fiorello che, per l’appunto, era meridionale.

Il vero problema, tuttavia, si presentò quando si trattò di predisporre la spedizione del tutto al Capo, il quale si era raccomandato di fare in modo che “non si vedesse cosa c’era dentro“. Il proiettile era quello, ormai, mica poteva tornare dal negher, o quello che fosse. Poteva soltanto decidere il tipo di busta, e acquistarla, perché il tipo non gliela aveva poi mica data, la busta, benché l’avesse pagata, e cara. Ci voleva una busta piccola, questo era certo. Poi bisognava anche scrivere il nome del Capo, altrimenti mica si sapeva a chi era indirizzato il proiettile.

Chi mi ha raccontato questa storia non ha saputo dirmi come effettivamente il fido esecutore degli ordini del Capo fosse poi riuscito ad assemblare il tutto, solo che, infine, era riuscito a infilarlo nella cassetta postale del Capo, e che aveva dovuto penare e ricorrere a tutta la sua scaltrezza per non destare i sospetti del carabiniere assegnato alla residenza del Capo, il quale, a dire il vero, lo aveva pure salutato, perché lo aveva visto spesso andare dal Capo, essendo suo fido esecutore di quello, ma proprio questo gli aveva fatto intuire che forse fare finta di niente fosse la cosa migliore, e di questa intuizione s’era rallegrato con se stesso.

Quando, il mattino dopo, il Capo andò di persona ad aprire la sua cassetta delle lettere, non trovò alcuna busta riconducibile a quella che si aspettata di trovare, e mormorò un bestemmione pensando a quell’idiota del suo fido esecutore. Ma guardando meglio sul fondo della cassetta vide un proiettile, da solo, senza busta, sopra il quale era graffito il suo nome preceduto dal simbolo del cancelletto, quello che si usa per gli hashtag, insomma. Dopo alcuni altri bestemmioni si convinse che, in fondo, poteva andar bene anche così. In fondo, è l’atto quello che conta. La notizia sarebbe passata e nessuno sarebbe stato lì a domandare i dettagli, a parte gli inquirenti, e, quanto a quelli, la cosa si poteva sistemare.

Così la notizia passò, ed ebbe il suo effetto, non quello che sperava ma, insomma, accettabile.

Volle però il caso che, quella volta, l’esame del proiettile venisse affidato ad un tecnico abbastanza scrupoloso, il quale, dopo aver notato sul metallo dei segni non riconducibili al graffito, volle aprirlo e, con stupore, vi aveva trovato all’interno, incredibilmente ripiegata, una busta, sulla quale vi era stato scritto a mano, e con calligrafia che giudicò potenzialmente riconoscibile, il nome del Capo, sempre con hashtag, e il suo indirizzo. Ma il caso volle anche, rivelandosi beffardo, che proprio quella sera alle diciannove fosse stata indetta una piccola conferenza stampa sulla vicenda, più per prassi che per necessità, poiché non c’era in realtà niente altro da aggiungere a quello che si era già saputo attraverso i mezzi di comunicazione, ragione per la quale era presente solo un vecchio cronista di agenzia.

Il tecnico, che vi si era recato per comunicare ai suoi superiori la scoperta, proprio mentre il questore si apprestava a chiudere la brevissima e inutile informativa, istintivamente si alzò in piedi e disse, rivolto al questore, ma a voce alta, che in realtà vi erano delle novità. Il questore lo aveva dapprima squadrato sospettoso, non riuscendo a ricordare chi fosse, poi, informato da un funzionario, si limitò a dire “Quali novità?” Il questore era stanco, e aveva un appuntamento di lì a poco per andare a teatro con la moglie, e non ne aveva alcuna voglia, eppure doveva, quindi questa cosa della conferenza doveva chiudersi nel più breve tempo possibile.

Il tecnico descrisse la sua scoperta, fornendo, seppur brevemente, ogni particolare, tenendo a precisare infine che, avendo a disposizione quei dati, l’identificazione della persona che aveva spedito al Capo il proiettile fosse cosa più che possibile.

Benché il questore avesse chiesto al cronista di tenere al momento la notizia per sé, in attesa di accertamenti che avrebbero potuto anche destituirla di fondamento, in capo a un paio d’ore la vicenda della busta nel proiettile era di dominio pubblico. Tutti lo sapevano, tutti ne parlavano. Tutti tranne il fido esecutore che, intorno alle ventidue, se ne stava al Bar del Giambellino, gustandosi un bianchino, a piccoli sorsi, e il ricordo dettagliato della sua impresa. Aveva ancora della polvere da sparo nelle unghie. Se n’era accorto mordendosele.

Immagine: dal film “Milano nera“, 1961 di Gian Rocco e Pino Serpi, autori anche della sceneggiatura assieme a Pier Paolo Pasolini.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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