Indifferenza (Milano, Binario 21)

Quello che segue è il terzo capitolo della seconda parte di un romanzo che sto finendo di scrivere. Il personaggio centrale, A., è appena arrivato in treno a Milano, dove si sta recando per chiarire una curiosa e oscura vicenda che, in parte casualmente, ha confuso la sua scialba ma sicura esistenza, ed anche per un piccolo incarico affidatogli dal suo datore di lavoro, approfittando della sua intenzione – senza saperne il motivo reale – di recarsi in quella città.
Poiché oggi, 27 gennaio, è la Giornata della Memoria dell’Olocausto, ho pensato di pubblicare questo capitolo, in cui A. scopre per caso il Binario 21.

3

Fui svegliato dalla voce del controllore e dai rumori dei passeggeri che prendevano i loro bagagli. Molti erano già scesi dalla vettura. Avevo dormito quasi ininterrottamente, e mi sentivo meglio, molto meglio.

L’enorme volta in ferro della Stazione Centrale mi ricordò l’Officina. A dire il vero era la capriata metallica dell’Officina che, chissà per quali ragioni, forse per immagini ed impressioni ricevute chissà quando, mi aveva sempre fatto pensare a Milano, città dove non avevo mai messo piede prima di allora, della quale avevo tuttavia un’immagine stranamente famigliare: cieli grigi, strade operose, vecchie fabbriche, palazzi con ringhiere di ferro. Famigliare, senza ragione palese, quasi fosse scaturita dal ricordo soltanto visivo di una fotografia isolata e sbiadita, finita chissà come nell’album di famiglia, o sulla parete di un corridoio. Di quelle immagini che capita di vedere di sfuggita, per pochi istanti, senza mai domandarsi da dove vengano, e perché siano lì, e che tuttavia, quando questo accade per un numero indefinito di volte, forse centinaia, restano impresse per sempre, dimenticate ma sempre pronte a riemergere quando il caso o l’errore lo dispongano. Forse, stavo per concludere, si trattava solo dell’immagine usuale che molti hanno di quella città, ma appena la vidi apparire di scorcio oltre le uscite, ogni cosa mi parve corrispondere a quella che io ne avevo, e mi venne di sospettare allora che forse tutte le immagini che appaiono confuse e precarie nella mente provengano da un luogo reale, dove si è stati o dove prima o poi capiterà di trovarsi.
Entrai in un bar, presi un caffè ed acquistai un pacchetto di sigarette. Non fumavo molto, e negli anni avevo smesso e ricominciato decine di volte. Ma in quel momento ne avevo proprio voglia.
M’incuriosì un manifesto che informava di una mostra in corso all’interno della stazione, recante una fotografia grigia nella quale appariva una parola a caratteri maiuscoli incisa su un muro di cemento liscio: INDIFFERENZA . La mostra era al Binario 21, un vecchio binario sito nel sotterraneo della stazione, sotto quelli moderni.
Vi scesi. Lessi in una teca che si trattava del binario dal quale, durante la guerra, partivano i treni che conducevano ebrei e deportati politici ai campi di concentramento. Centinaia di persone, forse migliaia, molte delle quali non fecero più ritorno. E quando mi trovai dinanzi quella enorme parola, INDIFFERENZA, incisa sulla parete di un lungo e basso corridoio, ebbi la sensazione potente di trovarmi di fronte a qualcosa che mi riguardasse direttamente, e provai vergogna del mio egoismo che, ancora in quel momento, resisteva nel porre in secondo piano un evento assai più tragico e grande di quanto non fosse la mia singola esistenza.
Giunse, da non so quale direzione, un signore molto anziano, magro, distinto, indossava un ampio cappotto ed un cappello di feltro, e camminava aiutandosi con un bastone. Si fermò accanto a me, e ci guardammo. La sua espressione non mutò, e non disse nulla, benché per alcuni quasi impercettibili tremiti mi parve che volesse dirmi qualcosa, senza però riuscirvi.
Rimanemmo così, in silenzio, vicini, davanti a quella parola, non allontanandone mai lo sguardo, come se ogni singola lettera ne generasse altre, formando altre parole che alludevano ad altre immagini, ed il tempo di leggerle non bastasse mai.
Quando decisi di andare, lo salutai con un gesto del capo e lui subito mi porse la mano, sorridendo, e quando gli porsi la mia la prese tra le sue, così come si fa con le persone cui si vuole bene. Poi si fece serio e girò lo sguardo verso la scritta, senza lasciarmi la mano, cosa che mi mise a disagio.
“Sa cos’è l’indifferenza?” mi disse.
“Cosa?”
“È il peggior nemico della storia, e della nostra vita.”

Fuori della stazione, riconsiderando quelle parole, mi scoprii a tentare di produrre argomenti a favore dell’indifferenza, che molte volte avevo ritenuto una buona arma di difesa. Ma non mi riusciva più di farlo, perché ora sentivo che quell’uomo avrei potuto essere io, di lì a non molti anni, e che avrei dovuto dunque porre maggiore attenzione alle sue parole, conservandole così come le avevo intese, così come si conserva un oggetto che un giorno potrebbe tornare utile, forse decisivo, tanto da salvarci la vita.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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