Je parle aux murs (Lacan)

Nel mare degli scritti e delle parole trascritte di Jacques Lacan (1901-1981) capita di incontrare, così come in quelli di altre persone rimarchevoli, espressioni che compiutamente delineano un paesaggio di questioni, e che possono colpire sia come frammenti isolati – spolia inseriti in un qualunque altro contesto senza perdere la forza espressiva di quel paesaggio, che resta intatta in un qualunque suo frammento –, sia come invitanti indici delle singole questioni delineate e delle loro connessioni.

Accanto ai testi formalmente pubblicati, e dunque curati e strutturati da Lacan stesso, si hanno numerose trascrizioni delle registrazioni delle sue lezioni e conferenze, molte ancora inedite, che riportano quanto detto da lui così come esattamente lui lo disse, con le incertezze e le improvvisazioni del discorso a braccio, e forse con il dubbio insolubile concernente la corretta trascrizione delle sue parole.
È evidente, me ne rendo conto, che tali incertezze e dubbi possano conferire alle sue parole quell’aura di frammentarietà che induce magneticamente a spostare l’attenzione verso quanto in quelle parole appare non detto, o su quanto si sospetta potrebbero aver voluto dire, là dove si possa volare noi stessi, poiché là tutto è possibile, persino di instaurare un dialogo diretto con l’autore morto, alimentarlo col nostro sangue, farlo parlare a nostra immagine e somiglianza.
Ma Jacques Lacan era un medico, uno psichiatra, e le sue parole erano dunque finalizzate alla cura di persone in carne ed ossa. E per quanto avesse a che fare quotidianamente con l’invisibile, ovvero con ciò che si manifesta, eppure ancora non si comprende, le sue parole non possono e non debbono essere soltanto strumento d’immaginazione poetica.
Delle sue espressioni, di cui dicevo all’inizio, due mi è capitato di incontrare che mi hanno colpito: “je parle aux murs”, specificando che è proprietà dei muri quella di restituire e far risuonare ciò che si dice, e “penser n’est pas en soi une maladie, mais il y en a qu’elle peut rendre malade”, per la sua compiuta significazione.

Je parle aux murs

Nel quarto degli Entretiens de Sainte-Anne, il 3 febbraio 1972 [1], Lacan esordisce annunciando di voler chiarire alcune sue precedenti affermazioni:

«Je vous ai dit, la dernière fois, quelque chose qui s’articulait en harmonie avec ce qui nous enserre: “Je parle aux murs”. Il est vrai que, de ce propos, j’ai donné un commentaire : un certain petit schéma, celui repris de la bouteille de Klein, qui devait rassurer ceux qui, de cette formule, pouvaient se sentir exclus : comme je l’ai longtemps expliqué, ce qu’on adresse aux murs a pour propriété de se répercuter.»

«L’ultima volta vi ho detto qualcosa che si articolava in armonia con ciò che ci lega “Io parlo ai muri”. Di questa affermazione. Ed è vero che, a questo proposito, ho fornito un commento: uno piccolo schema, quello ripreso dalla bottiglia di Klein, [2] che doveva tranquillizzare coloro i quali potessero sentirsi esclusi da questa formula. Come ho spiegato lungamente, ciò che si indirizza ai muri ha la proprietà di ripercuotersi.»

Penser n’est pas en soi une maladie, mais il y en a qu’elle peut rendre malade

Il testo della “Conférence à la faculté de Médecine de Strasbourg” (6 ottobre 1967) è stato più volte copiato e la sua origine non è precisata: peu déchiffrable à certains endroits, a été reproduit avec quelques hypothèses de lecture, chaque fois mentionnée. [3]
Si potrebbe credere, dice Lacan, che il peso principale portato dai medici non sia tanto il messaggio di Freud quanto le cose concrete con cui essi hanno a che fare, come fossero un solo pezzo, un solo blocco, poiché dei malati si dice che siano semplicemente cose da trattare, cose che resistono.

«Freud nous a appris que parmi ces malades il y a des malades de la pensée. Seulement il faut faire attention que c’est une fonction qui est ainsi désignée, qu’on est malade de la pensée au sens où l’on dit qu’on travaille du chapeau. À savoir que ça se passe au niveau de la pensée, est-ce que c’est ça ce que ça veut dire ?»

«C’est ce qu’on disait jusqu’à lui, en somme. C’est bien là tout le problème : psychopathologie mentale. Il y a des étages dans l’organisme, l’étage supérieur là, au niveau des commandes. Il doit y avoir quelque part un type ici, dans une petite salle d’où il peut éteindre tout ce qui est là haut dans le plafond. C’est comme cela qu’on s’imagine la pensée au niveau d’un certain point de vue, à la vérité sommaire, c’est qu’il y a quelque part quelque chose de directeur. Et que si c’est à ce niveau là que cela se détraque on aura des troubles de la pensée. Évidemment si l’on éteint tout cela engendrerait une certaine perturbation mais enfin nous n’en serons pas moins tous bien vivants, nous nous dirigerons à tâtons vers une porte et on remettra ça. C’était ça. C’est ça la conception classique du malade de la pensée

«Le mot malade de la pensée peut-être pris dans un autre registre. Nous pourrions dire des animaux malades de la pensée, comme on dit des animaux malades de la peste. C’est une autre acception. Je ne vais pas jusqu’à dire que la pensée en soi est une maladie. Le bacille de la peste en lui-même n’est pas une maladie non plus. Il l’engendre. Il l’engendre pour les animaux qui ne sont pas faits pour le supporter, le bacille. C’est peut-être ça dont il s’agit. Penser n’est pas en soi une maladie, mais il y en a qu’elle peut rendre malade

«Freud ci ha insegnato che tra questi malati ci sono dei malati del pensiero. Soltanto occorre sottolineare che si tratta di una funzione così designata, che si è malati del pensiero nel senso in cui si dice che si danno i numeri. Ma avvenendo ciò al livello del pensiero, che cosa può voler dire?»

«Questo è ciò che si diceva fino a lui, in sostanza. Ed è esattamente questo l’intero problema: psicopatologia mentale. Vi sono dei piani nell’organismo, e v’è un piano superiore, al livello dei comandi. Deve esserci un tipo, da qualche parte, in una stanzetta dalla quale può spegnere tutto ciò avviene in alto, in soffitta. È così che si immagina il pensiero, da un certo punto di vista, in verità sommario, che ci sia da qualche parte qualcosa che dirige. E che se si verifica un guasto a questo livello, si determineranno dei disturbi del pensiero. Ovviamente se si spegne tutto ne seguirà una certa perturbazione, ma infine saremo comunque ben vivi, ci dirigeremo a tastoni verso una porta, e si ricomincerà. Era questa, è questa, la concezione classica del malato del pensiero.»

«L’espressione malato del pensiero può essere esaminata sotto un altro registro. Potremmo dire animali malati di pensiero, così come si dice animali malati di peste. È un’accezione diversa. Non mi spingo fino al punto di affermare che il pensiero sia in sé una malattia. Lo stesso bacillo della peste di per sé non è una malattia. Esso la ingenera. La ingenera negli animali che non sono in grado di resistere al bacillo. È forse è di ciò che si tratta. Pensare non è di per sé una malattia, ma vi sono persone che può far ammalare.»

NOTE

[1] J. Lacan, Le savoir du psychanalyste (Entretiens de Sainte Anne), 1971-72, inédit (testo)

[2] “In matematica, b. di Klein, o otre di Klein (dal nome del matematico ted. F. Klein, 1849-1925), superficie topologica a una sola faccia (cioè priva di bordi e tale che è possibile percorrerla da un punto interno a uno esterno senza attraversarla), che si può immaginare costruita a partire da una superficie cilindrica, aperta agli estremi, la quale sia ripiegata in modo che uno dei due bordi circolari attraversi la superficie, penetri nell’interno e si congiunga con l’altro bordo lungo una circonferenza.” (Voc. Treccani). Nel diagramma Lacan la utilizza per indicare l’effetto del linguaggio sul reale, disegnandola in modo da ottenere la interscambiabilità di esterno e interno. « Autrement dit, la bouteille de Klein sert à montrer le passage qui fait qu’un sujet sort du cercle infernal de la demande adressée à un Autre réel, pour devenir un sujet désirant. […] Le trou dans l’Autre, provoqué par la demande du sujet, se trouverait ainsi rabouté au bord infini du lieu de l’Autre » (V. Hasenbalg, La bouteille de Klein, le langage et le réel, dans « La Revue Lacanienne », 2, 2007, pp. 64-70, testo)

[3] Così viene descritto in Lutecium (Site freudien et Lacanien maintenus par ses utilisateurs). La « Conférence. Successivamente in J. Lacan, Mon enseignement, éd. du Seuil, Paris 2005, in cui si raccolgono tre delle molte conferenze tenute da Lacan dopo la pubblicazione degli “Ecrits”, tra le quali “Donc, vous aurez entendu Lacan” (Faculté de médecine de Strasbourg) da cui è tratto il passaggio che segue.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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