La tutela del paesaggio e dello sguardo

da Piranesi, Le antichità Romane, III, tav. VIII,  Paris, 1835-1839

Il tracciato stradale di una grande arteria come la via Appia si realizzò, in età romana, attraverso la migliore collaborazione del naturale con l’artificiale, ovvero dell’azione della natura con quella dell’intelligenza umana [1]. In questi casi l’opera dell’uomo completa e migliora (certo, dal suo punto di vista) quella della natura, rendendo i tracciati naturali più facilmente percorribili, piani, continui, lunghi. Ciò che ne risulta non è dunque soltanto il manufatto – con tutte le sue importantissime implicazioni sociali, politiche, ecc. – ma un grande segno che diviene parte essenziale del paesaggio stesso, e dunque una realtà che supera le vicende di una singola cultura e di un singolo periodo.
Se il paesaggio è definibile come la forma che assume una porzione del mondo da un certo punto di vista, lo sguardo si configura come una componente essenziale e fondante del paesaggio, quanto la sua geomorfologia, naturale o artificiale.
Nell’ultimo secolo, tuttavia, il progresso ha determinato uno sviluppo esponenziale delle opere di modifica dell’assetto naturale dei luoghi. Antichi tracciati “naturali – artificiali” che solo fino alla metà del secolo scorso potevano continuare a soddisfare le esigenze di comunicazione e spostamento di un mondo essenzialmente basato sull’agricoltura e sull’artigianato, sono stati negli ultimi decenni modificati, raddoppiati, triplicati, oppure sostituiti da tracciati nuovi e completamente artificiali, realizzati anche laddove la natura non lo aveva previsto. Modifiche spesso obbligate da quel fenomeno degenerativo che giustamente Leonardo Benevolo ha definito “sadismo urbanistico” [2], un sadismo che però, a ben vedere, evidenzia chiare tendenze masochiste.
Così il rapporto tra naturale e artificiale si è gravemente sbilanciato e l’artificiale ha preso il sopravvento, determinando la distruzione del paesaggio, e con esso dello sguardo stesso.
Questa è una delle tesi, la principale, che si vogliono proporre in questo scritto.

Carlo Labruzzi (1765-1818) , Via Appia Sepolcro antico a sinistra della Via Appia. N.° 22

Lo sguardo
Utilizzo il termine sguardo (dal desueto e medievale sguardare) ritrovando in esso differenti accezioni e sfumature che nell’insieme restituiscono la complessità del “vedere”: “sguardo” indica infatti l’atto del guardare, la funzione della vista (o gli occhi stessi), la veduta (o vista), ed anche una benevola attenzione.

La fotografia è intimamente legata allo sguardo. In una fotografia possono essere riassunti tutti gli elementi dello sguardo, dunque essa può aiutarci a comprenderlo meglio
Mentre in un quadro l’oggetto individuato dall’artista, viene rappresentato, ovvero mutuato dalla realtà o dall’immaginazione e rappresentato liberamente, sia a livello formale che tecnico, nella fotografia l’oggetto, lo sguardo, viene riprodotto, o meglio ne viene riprodotta l’immagine bidimensionale, il diaframma impalpabile collocato tra l’oggetto stesso e l’occhio.
La fotografia riesce a suggerire una quarta dimensione: il tempo, che costituisce l’elemento fondamentale della fotografia. Il tempo viene, per così dire, “ingannato” dal procedimento fotografico che consente, seppur in modo parziale, di tornare in un determinato luogo, in un determinato momento, quando lo si desidera. A volte si può avere l’impressione che il tempo, a parte quello presente, non sia “andato via per sempre”, o “ancora da venire”, ma che sia “da qualche parte”; e che volendo un giorno si potrà ritrovare un certo momento così come si può ritrovare un certo luogo. Vi si torna però con gli occhi di un’altra persona. L’immagine perde in parte la sua autonomia perché ciò che vediamo non è l’oggetto in sé ma l’oggetto come fu percepito, un giorno, dallo sguardo di un soggetto che non siamo noi, ma proprio in quel momento lo sguardo si trasforma in “sguardo condiviso”, grazie alla condivisione, all’apprezzamento del suo valore.
Quando guardiamo, ad esempio, le fotografie di Thomas Ashby [3], il cui oggetto principale è costituito da monumenti o siti archeologici, noi osserviamo un frammento del passato attraverso uno scambio mentale e riconosciamo nella foto, e nel monumento, due valori fondamentali: un valore storico ed un valore estetico, come nelle opere d’arte [4]. Il valore storico è determinato dalla possibilità di analizzare un monumento in una forma che oggi, nella maggior parte dei casi, esso non ha più. Il valore estetico è invece dato dall’immagine in quanto tale, dalle sensazioni che essa suscita nell’osservatore.
Riflettiamo brevemente su queste due categorie di valori, premettendo che con il termine monumento intenderemo qui qualunque manufatto che, in quanto tale, rechi testimonianza di una cultura del passato, nel senso cioè di ricordo [5].

Valore storico
Di un monumento noi possiamo, e dobbiamo, tentare di ricostruire la storia del suo utilizzo, quella del suo abbandono, e quella del suo eventuale riutilizzo [6]. Questo tentativo di ricostruzione segue un procedimento a ritroso, simile a quello psicoanalitico: dall’analisi dei sintomi si risale al trauma e si cerca si ristabilire l’equilibrio iniziale. A differenza degli psicoanalisti, gli archeologi patiscono però la frustrazione di non poter mai ristabilire l’equilibrio iniziale ma solo, nella migliore delle ipotesi, di poterlo riconoscere.
La ricostruzione è quasi sempre lacunosa poiché gran parte degli elementi costitutivi sono andati irrimediabilmente persi e di essi non rimangono che tracce, che proprio per la loro rarità, fragilità e frammentarietà debbono ricevere il massimo dell’attenzione.
Ashby aveva ben compreso, anche attraverso l’insegnamento di Rodolfo Lanciani, che la metodologia di studio più efficace non poteva che essere basata sulla ricognizione e sull’analisi tecnica del monumento e sulla ricostruzione delle sue vicissitudini, con l’ausilio di fonti, antiche carte topografiche, vedute panoramiche, disegni e dipinti. Una metodologia che iniziò ad essere utilizzata da eruditi rinascimentali come Pirro Ligorio e Flavio Biondo, e che oggi riconosciamo col nome di topografia archeologica.
La topografia archeologica segna una svolta metodologica capitale negli studi antiquari e contribuisce allo sviluppo della moderna disciplina archeologica: il monumento non viene più considerato soltanto per il suo valore intrinseco, artistico o venale, ma torna ad essere inserito in un contesto più ampio ed acquista il valore precipuo di documento storico. Un monumento può essere datato, e quindi reinserito in un contesto temporale, e reso nuovamente visibile (restaurato e tutelato) reinserito in un contesto spaziale.
La prima azione consente la ricostruzione di un determinato aspetto storico. L’analisi topografico – archeologica di un antico tracciato quale quello della via Appia e dei suoi diverticoli, restituisce l’immagine di un sistema vivente, alimentato da arterie lungo le quali sorgevano fattorie, villaggi e campi centuriati. Essa permette di tentare la ricostruzione delle modalità di sfruttamento agricolo di un determinato territorio e di confermare o meno, attraverso l’individuazione di un calo della produzione o di una riconversione, il verificarsi di una crisi o di una trasformazione economica. Un’analisi, purtroppo, frequentemente resa impossibile, ed in alcuni casi in modo irreversibile, dai tanti abusi e delle tante trasformazioni edilizie ed urbanistiche.
La seconda azione, il reinserimento di un monumento nel suo contesto spaziale, consente il recupero del rapporto del luogo, e quindi anche del paesaggio, con la storia e della sua funzione di elemento generatore del carattere culturale di coloro che vi abitano.

Valore estetico
Il termine estetico non viene qui utilizzato nel senso di rispondente al gusto e al sentimento del bello, ma in quello più propriamente etimologico di sensazione. Un valore estetico è così un valore determinato dalle modalità della percezione di un oggetto e dalle sensazioni conseguenti avvertite dal soggetto. Al miraggio della conoscenza dell’oggetto in sé opponiamo dunque la ricerca delle condizioni alle quali è possibile la conoscenza di un oggetto, e delle diverse modalità attraverso le quali esso viene percepito [7]
Di una foto di Ashby, ad esempio, possiamo dire che essa è bella, esprimendo così un giudizio soggettivo, non condivisibile in assoluto. Possiamo invece dire, sicuri di trovare un maggiore consenso, che quella foto esprime una certa atmosfera, ed anche che in quella foto si notano una serie di elementi che rimandano ad altri elementi ed a diverse sensazioni. Ciò che Alois Riegl chiamava Stimmungswirkung, un termine che, come spesso accade, non ha un esatto corrispondente in italiano, ma che potremmo tradurre con impressione diffusa: la serie di sensazioni determinate da una certa atmosfera [8].

Arnold Böcklin, Campagna romana (olio su tela, 1852)

 La percezione dell’antico
La nostra visione dell’antichità si fonda su un’immagine collettiva di resti di vie lastricate, ruderi laterizi rossastri, colonne spezzate, marmi con iscrizioni quasi illeggibili, frammenti di affreschi dai colori sbiaditi. Questa immagine non è l’antichità, non è il passato: essa è soltanto la forma attuale delle testimonianze del passato. I Romani non avevano il culto dei monumenti e, soprattutto, a parte rari casi, non li utilizzavano per ricostruire una determinata vicenda storica. Il loro legame col passato era di altra natura, regolato da altri criteri. Il loro sentimento era di continuità con un mondo percepito come una totalità percorsa da forze vive ed operanti [9].
Occorre sgomberare il campo da un equivoco diffuso: di qualunque natura siano le sensazioni provate dinanzi alle “cose antiche”, o alle fotografie che le ritraggono, esse non hanno nulla a che vedere con l’antichità. Ogni sensazione è determinata dal resto, dalla rovina, ovvero da un elemento (frammento) che testimonia insieme l’attività di uomini scomparsi, il trascorrere del tempo e la rivincita della natura sul manufatto umano.

Nella costruzione di un edificio, scriveva George Simmel [10], si dà forma alle masse ed alle forze della natura che vengono sottomesse e manipolate per dare visibilità ad un’idea, “ma nel momento in cui la decadenza della costruzione distrugge la perfezione della forma, le parti si separano di nuovo e palesano la loro originaria universale inimicizia, quasi la formazione artistica non fosse stata altro che un atto di violenza dello spirito, una costrizione della quale la pietra, prima assoggettata, si sbarazza lentamente, recuperando la legalità autonoma delle proprie forze”. “Nelle rovine di un edificio invece appare evidente che, insieme alla scomparsa e alla distruzione dell’opera, sono cresciute altre forze e altre forme, quelle della natura. Così da ciò che in lei vive ancora dell’arte e da ciò che in lei già viveva della natura, è scaturito un nuovo intero, una unità caratteristica”.

Il fascino della rovina si manifesta proprio nel percepire un’opera dell’uomo come un prodotto della natura. La natura utilizza quindi l’opera come materiale di una sua formazione, così come l’uomo aveva utilizzato in precedenza i materiali naturali. La rovina capovolge quell’ordine che vede nello spirito umano l’elemento formativo della materia. L’aspirazione verso l’alto dell’edificio ed il suo sprofondare verso il basso, costituiscono, secondo Simmel, i termini di un’immagine tranquillizzante, perché puramente naturale e metaforica delle forze che continuamente operano nell’anima. La deformazione dell’edificio, provocata dall’azione degli agenti naturali e dell’uomo, ed il suo reinserimento in un contesto formale e cromatico naturale determinano una sensazione di pace. Le opere tendono ad assumere forme e colori omogenei con il paesaggio naturale, come le vie lastricate a basoli grigi, che si perdono nell’oscurità di una macchia mediterranea, come il grande segno della via Appia, che percorre ancora l’Italia da Roma a Brindisi: scomparendo e riemergendo, sempre componendo un paesaggio.

La rovina come forma presente del passato
Mi sembra di poter riconoscere nel tema della rovina come forma presente del passato un’ipotesi di lavoro interessante, contribuendo essa a sottrarre la rovina, e quindi in generale l’interesse archeologico, ad ogni possibile interpretazione retorica, restituendola ad un contesto assolutamente presente, consentendo una sua collocazione cronologica, in quanto forma nuova, priva di ambiguità.
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di ‘attualità’ ” [Jetztzeit], scriveva Walter Benjamin [11]. Il passato non può configurarsi come una determinazione distinta del tempo, o come un’immagine eternamente ricorrente ed eternamente, positivo o negativo oppure sepolto nell’indifferenza: la presenza di indizi colloca la nostra esistenza e la nostra percezione in un’unica esperienza con esso. Possiamo anche credere di considerarlo come uno spazio vuoto o lacunoso in parte colmabile con dati che ci permettano di identificarlo nella sua configurazione originaria. In ogni caso, non faremmo altro che percepire, sistemare logicamente e riutilizzare indizi che rivelano qualcosa di estremamente presente.
L’interesse archeologico, questo ci preme sottolineare, è un interesse assolutamente contemporaneo che appartiene ad un contesto culturale attuale. Ovviamente l’interesse per il passato e per le cose antiche è sempre esistito, ma in forme diverse da quella attuale, che potremmo definire, appunto, archeologica. L’archeologia può dunque essere considerata come una forma peculiare di interpretazione del passato che si sviluppa a partire dall’Umanesimo, ma che diviene come oggi la conosciamo soltanto a partire dal secolo scorso.
Possiamo dunque concludere, se si accetta questa tesi, che qualsiasi attività di studio e tutela dei “monumenti” non può essere in nessun modo ridotta a mera attività antiquaria o erudita, né soprattutto può essere considerata come attività, per quanto prestigiosa culturalmente, superabile in nome delle esigenze della contemporaneità perché lo studio e la tutela dei monumenti sono esigenze della contemporaneità dalle quali nessuno sviluppo può prescindere.

La distruzione dello sguardo
Lo sguardo è al centro delle fotografie di Ashby, o delle opere di quei viaggiatori e artisti, soprattutto inglesi e tedeschi, che tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vennero in Italia, e particolarmente nel Lazio, attratti dalla natura eroica del paesaggio; fra questi i cosiddetti “Deutsch-Römer”, Böcklin in particolare [12]. Il loro sguardo componeva un paesaggio ancora, miracolosamente, pastorale, dove la dolcezza delle pianure dei litorali e la drammaticità dei ripidi colli di tufo, la calma dei laghi, i frequenti corsi d’acqua e le improvvise, malsane, paludi, rivelavano la compresenza dei due topoi della letteratura latina: il locus amoenus ed il locus horridus.
Il locus amoenus era il luogo ideale, fresco, fertile e per questo divino. Il locus horridus era invece il luogo spaventoso o più semplicemente lo spazio sconosciuto, selvaggio, abitato da entità dal carattere ambiguo. Il primo riconoscibile nella dolcezza delle colline e dei pascoli, nei boschi attraversati da chiarissimi torrentelli. I secondi nell’oscurità delle selve, delle grotte e delle valli tufacee profonde, nella bruma delle paludi. Luoghi che insieme alle sopravvivenze monumentali del passato costituivano quell’unità caratteristica che oggi riconosciamo con estrema difficoltà.

Di tutto questo oggi rimane ben poco, quasi nulla. Quelli che abitano un territorio da tanto tempo potranno forse ricordarne frammenti, sensazioni percepite anni addietro, quando ancora paesaggio ed ambiente urbano si fondevano in modo equilibrato. Quando il luogo aveva ancora qualcosa da dare. Ciò che è stato preso, invece, è stata unicamente la superficie del luogo, il terreno edificabile, l’occasione di guadagno più immediata, più facile e perciò meno intelligente, meno umana [13].
Ed è così poco quello che rimane del paesaggio di un tempo che potremmo elencarlo anche nello spazio ristretto di questo breve scritto.
Rimane poco, e ancora per poco. Se infatti lasceremo scomparire per sempre anche le ultime deboli testimonianze del paesaggio, se non riconosceremo ai grandi segni del paesaggio, come quello della via Appia, uno speciale statuto ed una concreta e complessiva tutela, la distruzione del paesaggio sarà compiuta, e con esso distruggeremo il nostro stesso sguardo, e quello dei nostri figli.

Ultimo spazio con introspettore” è la traduzione del titolo di una performance di Joseph Beuys [14], il grande artista tedesco scomparso nel 1986. Il termine introspettore non esiste nella lingua italiana, come non viene più usato il verbo latino introspectare, “guardare dentro”, (nell’antica dottrina augurale era detta spectio l’osservazione dei segni, degli auspici), di cui rimane invece il sostantivo introspezione.
Beuys scelse questo titolo in polemica con gli organizzatori di una esposizione, intendendo che quello sarebbe stato l’ultimo spazio che lui, l’introspettore, avrebbe realizzato per loro.

Joseph Beuys, Dernier Espace avec Introspecteur (first exhibition at the Anthony d’Offay Gallery, London, March-May 1982)

NOTE

[ Saggio pubblicato negli « Atti Convegno Internazionale Studi : La Tutela dell’Appia da Roma a Brindisi » (Italia Nostra), Roma, Museo Nazionale Romano, 3-5 marzo 2005)]

(1) Benché anche alcuni animali riescano a realizzare percorsi; allora potremmo forse definire un tracciato come un’opera interamente naturale e dunque l’intelligenza umana come una delle tante attività naturali. L’argomento è interessante ma non trova spazio in questa sede, dove applicheremo invece l’equazione natura = naturale e intelligenza umana = artificiale, più utile all’analisi del rapporto che intercorre tra i due termini.
(2) L. Benevolo, Roma oggi, Bari-Roma, 1977. Sul tema, lucida e giustamente drammatica la produzione letteraria e il pensiero di Antonio Cederna, del quale abbiamo riletto in questa occasione Brandelli d’Italia, Roma 1991
(3) Questo scritto è stato in parte ispirato dalle fotografie di Ashby presentate nella mostra Sulla Via Appia da Roma a Brindisi: le fotografie di Thomas Ashby, 1891-1925, cfr. il catalogo curato da S. Le Pera – e R. Turchetti, in BSR Archive, 6. Roma 2000. Cfr. anche il catalogo Thomas Ashby: un archeologo fotografa la Campagna Romana tra ‘800 e ‘900, BSR Archive, 1, Roma 1986, e Il Lazio di Thomas Ashby, 1891-1930, BSR Archive, 4, Roma 1994. Di Ashby ricordiamo qui soltanto il magistrale The Classical Topography of the Roman Campagna, London 1929.
(4) v. ad es. C. Brandi, Teoria del restauro, Torino 1977 [1963], pp. 5 e sgg.
(5) Cfr. Festus, De verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, ed. Lindsay 1913, p. 123: “[…] quicquid ob memoriam alicuius factum est, ut fana, porticus, scripta et carmina”.
(6) Nel caso della via Appia cfr. il breve ma utilissimo scritto di A. Esch, La via Appia e la sua fortuna, in AA.VV., La via Appia. Iniziative e interventi per la conoscenza e la valorizzazione da Roma a Capua, Roma 2002, pp. 17-21
(7 ) Peraltro, ogni oggetto denota un significato costante ma ne connota altri, subordinati al contesto in cui viene percepito e alla nostra personalità. Sul meccanismo di Denotazione/Connotazione cfr. ad es. R. Barthes, Eléments de sémiologie, in “Communications”, 4, 1964., tr. it. in, Elementi di semiotica, Torino 1966, pp. 79 sgg., e U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano 1975, pp. 82 sgg.
(8) A. Riegl, Der moderne Denkmalkultus. Sein Wesen und seine Enstehung, Wien-Leipzig 1903, trad. it. Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, Bologna 1990
(9) Sulla storia dell’archeologia e della percezione dell’antico cfr. A. Schnapp, La conquête du passé: aux origines de l’archéologie, Paris 1993. Tr. it. La conquista del passato. Alle origini dell’archeologia, Milano 1994; S. Settis, Continuità, distanza, conoscenza. Tre usi dell’Antico, in “Memoria dell’Antico nell’Arte Italiana”, III, in “Biblioteca di Storia dell’Arte”, Torino 1986, pp. 373-486.
(10) G. Simmel, Die Ruine, in Philosophische Kultur, Berlin 1984 [1919]. Su questo tema è in corso di pubblicazione una mia ricerca su Riuso dei monumenti e percezione dell’antico.
(11) Benjamin W., Tesi di Filosofia della Storia, in Angelus Novus, tr. it. Torino 1962, p. 83
(12) Per i Deutsch-Römer si veda ad es. AA.VV., I “Deutsch-Römer”. Il mito dell’Italia negli artisti tedeschi, 1850-1900, catalogo della mostra aprile-maggio 1988, Roma 1988
(13) Cfr. A. Cederna, Regina Viarum, in Brandelli d’Italia, cit., pp. 347 sgg.
(14) Dernier espace avec introspecteur. Cfr. C. Tisdall, Joseph Beuys – Dernier espace introspecteur 1964-1982, London 1982.

Pubblicato da Sandro Lorenzatti

Archeologo e Scrivano

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